WhatsApp, non scrivere al tuo capo | Può licenziarti seduta stante: emessa una storica sentenza
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Un semplice messaggio su WhatsApp al capo può costare il posto: una sentenza storica avverte chi si fida troppo della chat.
WhatsApp è diventato il canale di comunicazione più usato anche con il datore di lavoro: si avvisa di un ritardo, si comunica un problema, si manda un messaggio “al volo” senza pensarci troppo.
Ma quello che per molti è solo uno scambio rapido può trasformarsi, sul piano giuridico, in un elemento decisivo quando si parla di malattia, assenze e licenziamento, soprattutto se si pretende che la chat valga quanto un documento ufficiale.
Il diritto del lavoro, però, non segue le regole dell’immediatezza digitale. Un conto è avvisare che non si arriverà in ufficio, un altro è dimostrare la gravità di una patologia o la durata effettiva di un periodo di cura. Proprio qui si è inserita una recente decisione della Corte di Cassazione, che ha messo un argine netto all’idea che basti un messaggio scritto sullo smartphone per pretendere più tutele o un periodo di comporto più lungo del normale.
Il lavoratore in emodialisi e il messaggio via chat
Nel caso esaminato dai giudici, un lavoratore aveva comunicato al datore di lavoro tramite WhatsApp di essere “in emodialisi”, ritenendo che quella informazione, affidata alla chat, fosse sufficiente a far valere la particolare gravità della malattia. Come appreso da ilsole24ore, l’azienda aveva comunque proceduto al licenziamento per superamento del periodo di comporto, cioè il tempo massimo di assenza per malattia garantito dalla legge e dal contratto. Il dipendente aveva contestato la decisione, sostenendo che la patologia avrebbe dovuto allungare quel periodo di tutela.
La Cassazione ha però ritenuto legittimo il licenziamento, chiarendo un punto centrale: la gravità della malattia, che potrebbe giustificare un periodo di comporto più ampio, non può essere provata semplicemente con la messaggistica. Un testo su WhatsApp non ha il peso di una certificazione medica e non basta per dimostrare che il lavoratore rientri in una situazione sanitaria così seria da modificare i limiti previsti. In altre parole, il datore non è obbligato a considerare la chat come prova sufficiente per cambiare le regole sulle assenze.

Cosa cambia per chi usa WhatsApp per le comunicazioni di malattia
La sentenza non vieta di usare WhatsApp per avvisare il capo di un’assenza, ma stabilisce che il messaggio non può sostituire i canali formali. Se si intende far valere una malattia grave, capace di incidere sul rapporto di lavoro e sui giorni di comporto, servono certificati, documentazione sanitaria e procedure corrette. Affidarsi solo alla chat significa rischiare che l’assenza venga valutata come qualunque altra, con tutte le conseguenze del caso.
Il segnale che arriva dalla Cassazione è chiaro: chi scrive al datore frasi come “sto male” o “sono in cura” su WhatsApp non può pensare di essere automaticamente coperto dal punto di vista legale. La tutela passa ancora da prove solide e documenti ufficiali, non da conversazioni informali, per quanto sincere. E proprio per questo, prima di affidare una situazione delicata a una riga in chat, conviene ricordare che quel messaggio può non bastare a evitare un licenziamento, anche quando la malattia è reale e pesante.
